La professionalità del counselor
La professionalità e lo stile di lavoro del counselor richiede la gestione, la più efficace, di diversi strumenti operativi. I quali, singolarmente utilizzati o variamente combinati fra loro, strutturano e modulano interventi di aiuto mirati alla gestione di problemi e situazioni che la persona porta.
Qui di seguito tratto quelli che ritengo i più rispondenti ai principi del counseling e che, nella mia esperienza, ho verificato essere particolarmente efficaci.
L'accoglienza
Fondamentale dal primo impatto, ritengo che l’accoglienza sia, per chi si affida al counseling, la prima condizione per sentirsi a proprio agio (possibilmente) da subito; di percepire -sia nell’ambiente fisico (setting), che nell’atteggiamento accogliente del counselor– di essere in un ambiente protetto.
Ma anche nelle fasi successive l’accoglienza è quella condizione di base per cui, qualsiasi contenuto espresso, verrà comunque accolto e non giudicato, compresi il silenzio, il disagio, la rabbia e la commozione.
Ma cosa intendo esattamente con accoglienza?
Dal punto di vista del cliente, direi che l’accoglienza è quando mi sento accolto con gentilezza in modo incondizionato. Da counselor intendo una vicinanza all’umanità della persona, che deve percepire da subito di stare a proprio agio in un ambiente protetto, e che può stare in una relazione sullo stesso piano, pur nella differenza dei ruoli. Inoltre un rispetto incondizionato della sua persona, qualsiasi vicenda porti.
L'empatia
Strumento essenziale in molte relazioni d’aiuto, lo è in special modo, a mio parere, nel counseling.
Ritengo l’empatia uno stile, un modo comunicativo che apre pienamente alla libertà nella relazione. Al di là dell’etimo, con empatia intendo dire “sintonizzarsi” col modo d’essere dell’altro; con le sue emozioni, ma anche con le sue credenze, con il suo sistema di valori, con le sue idee, con le sue intuizioni. Anche se tutto ciò mi “disturba” o è altro rispetto alla mia visione del mondo. Ovvero: capisco e rispetto i tuoi modi e le tue ragioni, anche se io avrei fatto altrimenti.
Allora empatia è anche cogliere – e accogliere – le ragioni dell’altro; il riconoscerne il diritto ad esistere. Perché ritengo che dietro ogni idea, ogni valore, ogni scelta, c’è una ragion d’essere che al momento è parsa la migliore possibile. Per cui, in una seduta di counseling, è possibile osservare insieme – senza giudicare – un comportamento o scelta di vita “sbagliati”, dando empatia anche ai bisogni che vi sono sottesi.
Al di là dei contenuti che una persona porta, l’empatia riguarda anche la persona in se stessa; la quale, come cliente, ha pieno diritto ad essere accolta empaticamente e a non essere giudicata; anche se può apparire antipatica, indisponente , presuntuosa, ecc.. Anzi! L’esperienza m’insegna che tali persone spesso nascondono frustrazione, fragilità, insicurezza.
Funzionale all’empatia è l’ascolto empatico. Ovvero quell’ascolto attivo che consente all’empatia di realizzarsi. Tutti noi abbiamo presente il senso di agio che si prova quando qualcuno ci ascolta con attenzione speciale: con lo sguardo, con la mimica, e in rispettoso silenzio. Per cui, se abbiamo acquisito, anche col tempo, questa competenza relazionale, ancor più ce l’aspettiamo (giustamente!) da un professionista che è lì per noi, ad ascoltarci in modo mirato. Per cui come counselor ritengo essenziale la “presenza” in questo senso; avendo cura anche del linguaggio del corpo in generale e della comunicazione non verbale.
Il linguaggio
Una parola “centrata” può, da sola, toccare il cuore e aprire un mondo.
Vero e proprio strumento di lavoro, il linguaggio, anche non verbale, ha un grande potere nel condizionare, in un senso o nell’altro, la relazione counsiliare.
Il linguaggio è qualcosa di “plastico” che adattiamo, normalmente, alle cose da dire. Ma non sempre è facile. Quante volte ci siamo detti “Non trovo le parole..”, “Non ci sono parole adeguate per dire quello che provo”, “Ho paura di dire cose offensive”, ecc.. Fino a che non succede che ci arrendiamo e lasciamo quell’evento “a se stesso”, non nominato, e quindi non condiviso. Ebbene, l’osservazione e la consapevolezza rispetto a queste difficoltà, è il primo passo di un “processo” di ricerca utile a individuare, volta per volta, una descrizione possibile: di una emozione, di un “sentore”, di un senso di disagio verso qualcuno.
Per cui, da una difficoltà -o rinuncia- iniziale a nominare certi contenuti, possiamo evolvere verso una fiducia sul fatto che ci si può “addestrare” e migliorare; pervenendo a una sempre maggiore chiarezza. Anche se non abbiamo mai ricevuto una educazione alla comunicazione, specie di emozioni e sentimenti. Da rimarcare, fra i tanti interventi possibili, la riformulazione, che consente al counselor di parafrasare un contenuto espresso rendendolo più chiaro.
Il mio approccio “filosofico” al linguaggio risulta perciò -in ultima istanza- funzionale al raggiungimento di obiettivi importanti: prima fra tutte una elaborazione la più completa possibile, puntuale e argomentata, dei temi che ci stanno a cuore. Consentendo di togliere peso e virulenza a quelle cose “che rodono”.
Fiduciosi che il linguaggio non solo descrive la realtà; ma anche crea la realtà.
La creatività
Strumento eccellente che consente -anche nel counseling– di pervenire a soluzioni non ovvie di problemi complessi.
Come counselor ritengo utile favorire al massimo le potenzialità creative del cliente. Una delle modalità più efficaci in questo senso è il pensiero divergente (così definito da J.P. Guilford negli anni ’50) o pensiero laterale (E. De Bono negli anni ’60). Guilford attribuiva al pensiero divergente una modalità di operare più complessa, rispetto al modo di pensare più consueto, che lui definiva convergente. Per cui un problema non ha una ed una sola soluzione -come per lo più ci è stato insegnato, anche a scuola- ma può averne di molteplici.
L’ape e la mosca
L’esperimento dell’ape e della mosca aiuta a fare chiarezza. Sono state messe un’ape e una mosca dentro una bottiglia col fondo appoggiato a una finestra. Si è visto che l’ape tendeva ad andare sempre verso la luce, sbattendo ripetutamente sul fondo. Mentre la mosca tendeva a muoversi in tutte le direzioni, sbattendo qua e là, finchè non riusciva a infilarsi nel collo della bottiglia e a liberarsi. Ebbene, l’ape dimostra di avere una risposta unica al suo bisogno di liberarsi; mentre la mosca si muove senza un’idea guida, ma attraverso tentativi “divergenti”, tra cui almeno uno risolutivo.
Quante volte, come l’ape, ci siamo sentiti come imbottigliati dentro un problema o un conflitto, senza via d’uscita, dando sempre la stessa risposta? Perchè abbiamo timore a fare come la mosca?
Il nostro bisogno di sicurezza, la paura del cambiamento, i nostri preconcetti, le nostre credenze, è come se rispondessero per noi; condizionandoci in modo quasi automatico. Togliendoci l’incombenza del rischio; ma anche la libertà di cercare soluzioni nuove.
Ebbene, in sede di counseling possiamo osservare senza giudizio le risposte che spesso abbiamo dato a situazioni problematiche, e quanto queste siano state inefficaci.
L’osservazione in prospettiva ci aiuta a disidentificarci: ad acquisire quella distanza che ci aiuta a riflettere, a prendere atto delle emozioni che ci bloccano, che ci impediscono di guardare oltre l’ovvio. E a prendere atto, con coraggio, che la creatività non è solo degli artisti o dei “geni”.
Le intelligenze multiple
La creatività può anche essere potenziata -a mio parere- da una diversa valutazione della nostra intelligenza; che è più ricca e molteplice di quanto normalmente pensiamo. Se nel tempo abbiamo sviluppato una visione tendenzialmente “univoca” della nostra intelligenza, a quella ricorriamo per ogni evenienza della vita. D’altronde a scuola ci hanno insegnato questo! L’intelligenza logico-matematica e linguistico-verbale come uniche facoltà per leggere il mondo. Con buona pace di chi di quelle “intelligenze” non dava prove eccellenti.
L’intuizione di H. Gardner (negli anni ’70), che esistono diversi modi (almeno otto; ma aveva lasciato campo aperto) di essere intelligenti, è stata provvidenziale in molti campi, e ci ha mostrato quanto la cultura occidentale sia stata, per secoli, chiusa dentro schemi rigidi. Al punto che oggi appaiono, a molti di noi, anacronistici.
Ebbene, nel counseling è possibile, di fronte a un problema che ci blocca, esplorare anche le enormi potenzialità dell’intelligenza emotiva, con la sua facoltà principale, quella di dare empatia. Per cui, se sono in conflitto con un familiare, posso provare a immaginare quello che prova e, mettendomi nei suoi panni, “stemperare” il conflitto e ragionare sui rispettivi punti di vista.
Ugualmente ritengo efficace esplorare e valorizzare le potenzialità dell’intelligenza corporea, dell’intelligenza sociale, dell’intelligenza musicale, dell’intelligenza spaziale.
In definitiva, come counselor ritengo efficace per il cliente, sia il valorizzare e potenziare le intelligenze multiple che possiede; sia l’aiuto ad acquisire consapevolezza rispetto al fatto che, persone diverse, si muovono e ragionano con intelligenze diverse. Questo aiuta anche a prendere atto, e ad accogliere, la diversità dell’altro, oltre il giudizio. Non perchè sia più o meno intelligente (la vecchia concezione del QI), ma perchè lo è in modo diverso.
L'ironia
Può capitare, come counselor, di sentire, a margine del racconto di un evento tragico, una battuta ironica e spiazzante. La cosa aiuta a sdrammatizzare, a sorridere insieme, a respirare con sollievo. Ma viene anche da pensare a come spesso usiamo l’ironia come difesa; come modo di distanziarci dal disagio o dal dolore che viviamo; specie quando le parole non vengono.. Tutto ciò è “sano” e naturale, e come tale va accolto.
Fra l’altro, l’ironia attiva la fantasia e favorisce il pensiero divergente, con tutti i vantaggi che questo comporta. In quanto, cogliendo il grottesco che spesso accompagna eventi tragici, ci rendiamo conto di una ambivalenza e complessità che li caratterizza. Con la conseguenza di poter guardare agli stessi, non più da una posizione “frontale” o difensiva, ma con atteggiamento più aperto e compassionevole .“Quando riesco a piangere e ridere nello stesso tempo, è come se toccassi il cielo con un dito” (Roberto Benigni).
L’ironia, pur essendo uno strumento efficace e talvolta edificante, che aiuta a togliere peso ai problemi, può essere, talvolta, un’arma “a doppio taglio”. Può essere usata per ridicolizzare o ferire qualcuno. In tal caso come counselor, pur accogliendo la rabbia o il malcontento che sottende, mi sento anche di favorire l’osservazione e la consapevolezza in questo senso, e di elaborare insieme queste emozioni.
L’ironia da parte del counselor, anche come autoironia, può essere un vero e proprio strumento di aiuto: per creare un clima disteso, per rilassare il corpo, per ammorbidire un punto di vista rigido. Avendo la responsabilità primaria nella relazione d’aiuto, a maggior ragione, come counselor, mi rendo conto anche dei rischi di “effetti collaterali”, e di quanto siano importanti sensibilità ed attenzione in questo senso.
Strumenti “mutuati” dalla cultura orientale
Con questo titolo intendo riferirmi ad alcuni strumenti e pratiche, propri dello yoga o della meditazione, che ritengo utilizzabili, all’occorrenza, anche nella relazione counsiliare. Si tratta d’ intuizioni e conoscenze che hanno trovato in millenni di pratica, in tutto il mondo, la riprova di benefici sulla salute e sul benessere psicofisico in generale.
Fra l’altro, negli ultimi anni, centinaia di pubblicazioni su riviste scientifiche attestano questi risultati; anche a livello neurologico (attivazione di nuove connessioni neuronali, di aree cerebrali legate al benessere, con conseguente incremento di neurotrasmettitori specifici), come vere e proprie evidenze scientifiche.
Il respiro
Intendo il respiro consapevole; ovvero una respirazione volutamente più lenta e profonda, nella cui fase inspiratoria si immette più aria e nella fase espiratoria si emette tutta l’aria inspirata; potenziando così tutti gli effetti benefici del respiro. Col risultato di provare una sensazione di benessere generale, dovuta a migliore ossigenazione, rilassamento, e riconnessione col proprio corpo.
Ebbene, nel corso di una seduta di counseling, una breve pausa da dedicare al respiro consapevole allevia temporaneamente uno stato d’ansia, di stress, di tensione corporea, e favorisce l’osservazione di una emozione forte.
L'osservazione
Citata più volte nella trattazione degli altri strumenti del counseling, intendo qui fare il punto sul suo significato e sulla sua efficacia.
Se guardo qualcosa a distanza ravvicinata, anche solo l’etichetta di un vino, è evidente che vedrò tutto sfocato; per cui, solo mettendo la giusta distanza tra me e l’etichetta, riuscirò a leggere bene.
Ebbene, nel counseling si cerca di trovare quella giusta distanza tra noi e il nostro problema, per poterne osservare, senza giudicare, tutti gli aspetti, anche quelli più “in ombra”.
Il solo fatto di osservare con coraggio le nostre fragilità, le nostre insofferenze di fronte a fatti o persone, i nostri “errori”, ecc.. ci consente di acquietarci e di provare a dare un nome a ciò che ci disturba; e a porci domande mirate verso soluzioni possibili.
La disidentificazione
Con questo termine intendo quella modalità di guardare ai nostri problemi -dolori, malattie, emozioni negative- come non coincidenti con la nostra persona, ma come qualcosa di “accidentale” che la vita, in momenti particolari, ci porta. Ovvero, Io non sono malata, ma ho questa malattia, in questo determinato momento. Io non sono la “mia” malattia; ma sono una persona -fondamentalmente sana- che oggi come oggi ha un problema con cui fare i conti.
La compassione
In buona parte sovrapponibile all’empatia. Ma, specie nel linguaggio orientale, estendibile anche alla natura e al cosmo in generale. Come un “patire” insieme, in quanto parte di un tutto “armonico”. Per cui, un atteggiamento compassionevole, potrebbe essere inteso come un’apertura in generale, onnicomprensiva, verso la natura umana, oltre l’empatia; generalmente diretta -quest’ultima- verso persone singole o gruppi.
Lo stare qui e ora
Forse tra le maggiori acquisizioni dalla cultura orientale. Il vuoto mentale è quello stato che lo sottende e lo consente. Non è facile per noi occidentali, abituati a concepire la mente perennemente affollata di pensieri, immaginare che possiamo -in situazioni che richiedono particolare concentrazione- lasciar andare i nostri pensieri; per lo più divergenti dall’oggetto della nostra attenzione. Anzi! Generalmente proviamo una sorta d’inquietudine al solo immaginare un vuoto di pensieri (timor vacui).
Un addestramento in questo senso è fattibile con la meditazione, per chi ha familiarità o curiosità rispetto a questa pratica.
Ma anche nel counseling, inducendo fiducia sulla sua efficacia, lo stare nel qui e ora è una modalità che aiuta a stare con una emozione, con un ricordo doloroso, per poterlo accogliere, osservare ed eventualmente lasciarlo andare